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Tecniche di comunicazione per gestire e risolvere i conflitti

3 Aprile, 2020

di Anna Maria Carbone

Sebbene da più parti si stia guardando al conflitto come a una risorsa e non solamente come a un elemento da controllare e, possibilmente, eliminare dalle relazioni umane, esso è tuttavia costantemente presente nel quotidiano di moltissime persone. Volendo ragionare di questo, appare importante in primo luogo distinguere le divergenze e i disaccordi dai conflitti veri e propri. In linea di massima le divergenze e i disaccordi afferiscono all’area del “cosa” (cosa penso io e cosa pensi tu, cosa faccio io e cosa fai tu) e del “come” (come faccio io e come fai tu) mentre per giungere al conflitto è necessario includere la dimensione esistenziale propria e altrui corredandola di un giudizio di valore. 

In altre parole dal “cosa fai” si passa al “cosa o chi sei”.  Questo passaggio non è solamente semantico, ma produce attivazioni emotive ben diverse sia in chi parla sia in chi ascolta.  Se è possibile discutere e trovare una mediazione sul piano del “fare”, molto più difficile è confrontarsi sul piano dell’essere poiché coinvolge elementi di storia personale e di identità non facilmente modificabili.  La gran parte dei conflitti in ambito domestico e scolastico prendono avvio da episodi, collocati in uno specifico spazio e tempo, che funzionano da “innesco”.  Se pure il fatto in sé comporterebbe un confronto, anche acceso, di breve durata, molto diverso è quando il piano del confronto si sposta senza che i soggetti coinvolti se ne rendano conto.

Marshall Rosenberg, ideatore della tecnica della ‘Comunicazione Non Violenta’, è partito da linguaggio per attirare l’attenzione su come, inconsapevolmente, si inneschino conflitti o li si alimentino senza averne l’intenzione. Ha sperimentato con successo questa tecnica in situazioni di conflitto di ogni tipo, compresa la guerra, in tutto il mondo. Dopo di lui altri autori hanno sottolineato l’importanza di curare l’espressione nella progressione delle dinamiche conflittuali  o nelle tecniche di mediazione e negoziazione a tutti i livelli.

Vediamo di seguito quali sono le espressioni che, più facilmente di altre, tendono a trasformare i disaccordi e le divergenze in conflitti. 

Tra le modalità più diffuse, e spesso inconsapevoli, che vengono adottate all’interno degli scambi relazionali e li rendono difficili si trovano: 

  • Giudizi moralistici
  • Valutazioni e svalutazioni
  • Diagnosi 
  • Paragoni

Tutte queste modalità di espressione attivano le resistenze e la necessità di reagire in modo uguale e contrario per ristabilire l’equilibrio sbilanciato dal giudizio. Nello sforzo di riequilibrare se nel parlare si usano modalità analoghe fatalmente il conflitto crescerà senza che ce ne sia l’intenzione reale. Rosenberg suggerisce, allora, di parlare dei fatti eliminando giudizi e opinioni.

“Dobbiamo imparare a descrivere ciò che gli altri fanno senza mescolarvi nessuna valutazione” scrive Rosenberg. E aggiunge “Al contrario, dire alle persone cosa non va in loro attiva comportamenti difensivi e reazioni aggressive”. 

In altre parole discriminare ‘ciò che sto vedendo’ da ‘cosa penso di ciò che sto vedendo’. Come accorgersene?

1- se viene usato il verbo “essere” es. “sei troppo generoso”. Parlando in modo non violento potremmo dire “quando ti vedo distribuire tutti i soldi che hai penso che tu sia troppo generoso”;

2- se vengono usati verbi a connotazione valutativa “ti lamenti sempre” che potremmo trasformare in “le ultime tre volte che ti ho sentita hai parlato dei tuoi malanni”;

3- se nel discorso appaiono avverbi e aggettivi: es. “Anna scrive sempre male” che potremmo esprimere dicendo “non riesco a comprendere la scrittura di Anna”, oppure “quando leggo gli scritti di Anna non distinguo bene le parole”.

Gli esempi appena proposti servono a dimostrare quanto è facile ricorrere a commenti, recriminazioni, giudizi, sentenze, diagnosi pensando che descrivano fatti. Il più delle volte quello che si esprime è il proprio giudizio, o pregiudizio, sulle persone. “E’ sempre il solito” invece di “le ultime tre volte è arrivato in ritardo”, oppure “non ascolti mai” invece di “ieri sera mentre ti parlavo guardavi la televisione”.  Il giudizio parla di ciò che una persona E’ invece che di ciò che la persona FA’ e questo modo di fare innesca immancabilmente nell’altro la necessità di difendersi e/o di contrattaccare. Questo meccanismo si attiva in entrambe le direzioni dello scambio comunicativo. Chi si sente giudicato restituirà un giudizio utile a ristabilire l’equilibrio. 

Cosa fare allora quando si riceve un giudizio o una svalutazione?

Il primo passaggio utile in presenza di qualcosa che si percepisce come un attacco è creare una distanza che permetta di uscire dal meccanismo reattivo che inevitabilmente tende ad attivarsi, riconoscendo il giudizio come espressione di una dinamica e altrui piuttosto che come un dato di realtà. Anche in questa modalità è utile separare l’episodio reale dalle valutazioni personali, ripristinando la giusta proporzione ed evitando di assumersi la responsabilità delle opinioni altrui. Restare sui fatti e parlare dei fatti è un buon modo di impedire il movimento reattivo e mantenere la temperatura emotiva a livelli più facilmente gestibili.

Altri atteggiamenti che possono far aumentare i livelli di conflittualità sono:

  • la ricerca dei colpevoli: molto meglio ragionare in termini di distribuzione delle responsabilità piuttosto che di ricerca di un capro espiatorio su cui farle ricadere tutte;
  • l’idea di nemico/avversario: eliminare qualsiasi processo alle intenzioni circa la volontà di produrre la circostanza di cui si discute;
  • la ricerca dei nessi di causalità: spostare l’attenzione su eventi passati o azioni passate per sostenere la lettura del fatto presente;
  • scaricare la responsabilità dei propri sentimenti: attribuire ad altri la responsabilità di aver suscitato i propri stati d’animo li mette in una posizione insostenibile, dalla quale vorranno allontanarsi al più presto. 

A proposito di sentimenti, l’abitudine a giudicarli in base all’accettabilità sociale ci ha resi poco attenti ad accogliere i segnali di cui i sono portatori e dall’altro molto efficienti nel tentare di sopprimere quelli reputati “inadatti” o “inopportuni”. Non attraversarli al momento giusto porta ad accumularli fino a renderli esplosivi o comunque difficili da gestire. 

Per accedere ai propri sentimenti è utile chiedersi “cosa è vivo in me adesso?”, “cosa sento? Qui è importante fare attenzione ai giudizi “travestiti” da sentimenti.

 “Mi sento maltrattato” descrive ciò che SI PENSA che l’altro stia facendo ma non dice assolutamente nulla del proprio sentire. “Io mi sento triste/addolorato/arrabbiato/preoccupato/… perché sono tre volte che rinvii il nostro appuntamento” renderebbe molto meglio l’idea e, soprattutto, distribuirebbe la responsabilità in modo equanime e, quindi, accettabile per tutte le persone coinvolte. Quando vengono riconosciuti come propri e ce se ne assume la responsabilità, i sentimenti diventano una formidabile risorsa funzionando come indicatori che guidano verso la loro vera origine e, quindi, verso le soluzioni. 

L’origine dei sentimenti (emozioni rese durature dai pensieri congruenti che le alimentano) sono i bisogni personali insoddisfatti. Il concetto di bisogno di cui parla Rosenberg deriva dalle teorie di Abraham Maslow sulla motivazione umana e sono classificati nella Piramide, codificata nel 1954 nel suo libro “Motivazione e personalità”. 

“I giudizi, le critiche, le interpretazioni e diagnosi sugli altri sono tutte espressioni alienate dei propri bisogni. Se qualcuno dice:  “Non mi capisci mai“ in realtà sta dicendo che il suo bisogno di essere compreso è insoddisfatto” M.B. Rosenberg 

L’atteggiamento che più di tutti genera e alimenta la violenza è il delegare o pretendere che siano altri ad occuparsi della soddisfazione dei bisogni nostri partendo dal presupposto che ogni bisogno si possa soddisfare in un solo modo e/o che debba essere compito di qualcun altro. Da adulti il compito di soddisfare i nostri bisogni ricade su di noi, da bambini, quando non si è ancora pienamente acquisita l’autonomia per soddisfarli in modo indipendente, c’è necessità dell’aiuto di qualcun altro che, però, non si sostituisca ma sostenga. I bisogni sono alla base delle motivazioni umane a qualsiasi età. E’ difficile rendere gradito un compito che soddisfa solamente il bisogno di qualcun altro. La sfida qui è trovare in che modo l’azione o il comportamento richiesto sia utile a soddisfare un bisogno del bambino oltre che quello dei genitori. Il conflitto nasce non sul bisogno in sé ma sul modo di soddisfarlo, o sulla strategia che si individua per riuscirci. 

Poiché l’intera umanità condivide gli stessi bisogni, quello è il territorio su cui è possibile incontrare l’altro ed attivare l’empatia. Se i desideri possono produrre conflitto, incontrarsi sul piano dei bisogni sottostanti produce connessione. Può succedere di dover fare delle richieste, e anche su questo versante, si possono utilizzare modalità che involontariamente innescano conflitti superflui.

“Vorrei che non facessi tardi”, “evita di chiamarmi all’ora di pranzo”, “smetti di darmi fastidio” non indicano con chiarezza cosa si chiede all’altro di “fare” ma solamente cosa vogliamo che NON faccia. Anche la persona più ben disposta verso di noi si troverebbe in difficoltà sentendosi trascinata in un campo minato dove le incognite sono ad ogni passo ed il rischio di insoddisfazione, nonostante il generoso tentativo, è altissimo.

“Vorrei che non facessi tardi” non parla di elementi concreti, non fornisce parametri per orientarsi. “Vorrei che tu arrivassi entro le 19”, invece, sì.

“Vorrei che mi ascoltassi” è una richiesta apparentemente ben formulata tuttavia il verbo “ascoltare” è troppo vago per indicare un’azione precisa e inoltre manca l’elemento tempo. 

Sicuramente chi la fa ha in mente una circostanza precisa, ma una richiesta formulata in questo modo ha poche chanches di essere accolta.

“Vorrei parlarti della mia giornata di oggi. Puoi darmi attenzione per 15 minuti?”, invece, è una richiesta che consente all’altro di valutare e scegliere in sicurezza e, perciò, di rispondere senza difficoltà.

Quando capita di ricevere richieste vaghe o ambigue, vale la pena di chiedere indicazioni più precise prima di stabilire se possono essere accolte o no. Nel caso in cui non possano essere accolte, Rosenberg suggerisce di spiegare cosa impedisce di accoglierle piuttosto che opporre un secco “no”, parola piccola piccola ma potentissima nell’innalzare velocemente la temperatura emotiva.

Per concludere alcune strategie che aiutano a rendere costruttivo un conflitto.

Rimanere concentrati sul problema senza attaccare la persona 

Colpire l’altro con giudizi svalorizzanti serve solo a inasprire il conflitto. Una persona che si sente giudicata male cercherà giustizia in tutti i modi e il livello di violenza aumenterà. Parlare dei fatti e non delle persone permette di concentrarsi sul problema e trovare la soluzione. 

Vincere tutti 

“Preferisci avere ragione o essere felice?” è il titolo di un libro di M.B. Rosenberg. E’ utile farsi spesso questa domanda davanti a una divergenza o a un disaccordo. Anche quando si riesce ad aver riconosciuta la propria ragione, il risultato è effimero e di breve durata. Chi è costretto a “cedere” e a “darla vinta” oggi, domani tenterà di rifarsi e riequilibrare le posizioni. Le soluzioni che funzionano e che sono destinate a durare sono quelle che considerano e soddisfano i bisogni di tutti e non quelli di uno solo. 

Discutere in modo onesto e assertivo senza manipolare o intimidire 

Tutte le strategie del tipo “io vinco-tu perdi”, miranti ad ottenere potere e controllo sugli altri, non funzionano certo nel lungo periodo e non favoriscono la collaborazione tra le parti. Molto meglio esporre in modo chiaro e diretto il proprio punto di vista nel rispetto degli altri. 

Lasciar affiorare i problemi per risolverli in modo collaborativo

Evitare i conflitti a tutti i costi spesso comporta che le persone accumulano risentimento. Il risentimento, a sua volta, può bloccare la cooperazione e dare origine a comportamenti passivo-aggressivi (sarcasmo, ritardi evitabili e pettegolezzi). E’ molto meglio far emergere i problemi, parlarne in modo rispettoso e cercare di arrivare ad una soluzione.

Chiedersi com’è vedere il mondo con gli occhi dell’altro: ascoltare 

Per arrivare a soluzioni soddisfacenti e durature è utile aprirsi all’ascolto e tenere in considerazione ciò che sta a cuore all’altro per comprendere il problema più chiaramente e di arrivare ad una soluzione che funzioni per entrambi.

Riferimenti bibliografici

D. Novara La grammatica dei conflitti: L’arte maieutica di trasformare le contrarietà in risorse – 2011  . Edizioni Sonda. et al. 

P. Patfoort Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza 2013  Collana Scienze per la Pace – Pisa University Press

M. B. Rosenberg Le parole sono finestre (oppure muri) – 2003 – Esserci Edizioni 

W. Ury, R. Fisher, B. Patton – L’arte del negoziato – 2005 – ed. Corbaccio

W. Ury  Il no positivo. L’arte di condurre qualsiasi trattativa senza rinunciare ai propri obiettivi – 2009 – ed. Corbaccio

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