di Anna Maria Carbone
L’attività di mediazione in un conflitto rappresenta il tentativo concreto di andare oltre la logica dell’avversarietà per promuovere quella dell’alleanza, dell’accordo amichevole e condiviso. E’ la via maestra utile a evitare che il rapporto tra i “litiganti” si deteriori fino alle estreme conseguenze della rottura definitiva. La parola “mediazione” dal latino mediare – aprire nel mezzo, dividere, è utile a indicare un processo mirato a far evolvere dinamicamente una situazione di conflitto, aprendo canali di comunicazione che si erano bloccati. Spesso all’origine di un conflitto c’è la volontà di vedere riconosciute le proprie ragioni anche a discapito del riconoscimento di quelle altrui. Gli esperti di negoziazione sanno benissimo che un conflitto risolto con un vincitore e un vinto produce un risultato di breve durata. Chi ha perso tenderà di rifarsi al più presto, innescando un nuovo contenzioso. E’ fuori dubbio che le vittorie ottenute con rabbia portano quasi esclusivamente a una sconfitta a lungo termine, soprattutto per coloro che, sentendosi sconfitti e in qualche modo traditi, si ritireranno, conservando il sentimento di frustrazione per il conflitto successivo.
Queste considerazioni sono valide e applicabili a ogni tipo di conflitto, a qualsiasi livello: tra fratelli, fra genitori e figli, tra insegnanti e alunni, tra familiari, tra colleghi, tra partner, nella vita e nel lavoro. Quando veniamo chiamati, o ci troviamo coinvolti, in un conflitto altrui possiamo scegliere se assumere la parte del giudice o quella del mediatore, sapendo bene che l’una, più veloce, rischia di produrre risultati di breve durata mentre l’altra, più impegnativa, comporta uno sforzo che, nel medio-lungo periodo, porta a soluzioni più durature. Pur producendo risultati apparentemente analoghi, la posizione del mediatore è sostanzialmente diversa da quella del giudice che applica una serie di criteri definiti a priori, valuta, esprimendo giudizi di merito, le rispettive ragioni e stabilisce, emettendo una sentenza vincolante, come risolvere il conflitto. Le parole chiave dell’atteggiamento del giudice sono “autorità” e “potere”. Il mediatore, invece, facilita il dialogo tra le parti, agevola la discussione pacifica e costruttiva sull’oggetto del conflitto e consente loro di individuare e vagliare tutte le molteplici e possibili soluzioni del problema. Le parole chiave dell’atteggiamento del mediatore sono “ascolto” e “empatia”. L’obiettivo del mediatore è fare in modo che le parti ripristinino un comportamento collaborativo, rientrino in quella “connessione” che consenta loro di trovare spontaneamente soluzioni vantaggiose per entrambe. Per poter svolgere il suo ruolo, il mediatore è esterno alle parti, ma non «fuori dal gioco». E’ “equidistante”, o meglio “equivicino”. Non parla al posto di qualcuno, nell’interesse di qualcuno o ancora con l’intenzione di far andare le cose in un certo modo piuttosto che un altro. Non ha autorità o potere in nome dei quali esercitare un giudizio. La sua sola autorità è di tipo morale, cioè è autorevole agli occhi delle parti e gode della loro fiducia. Nel modello della Comunicazione Non Violenta di Marshall Rosenberg, il compito fondamentale del mediatore in un conflitto è quello di saper andare oltre l’oggetto del contendere, per intercettare quali bisogni delle parti chiedono di essere soddisfatti, cioè il reale interesse che ha prodotto il conflitto. Anche se a volte appaiono complicati gli esseri umani sono attivati generalmente da pochi bisogni elementari. Tutto il resto è una sovrastruttura collegata a ciò che abbiamo imparato, e che siamo capaci di vedere, sul modo, o sui modi, di soddisfare quel bisogno. Questi moventi primari sono:
- i bisogni fisiologici, di sopravvivenza
- i bisogni di sicurezza
- i bisogni di appartenenza e di affetto
- i bisogni di stima, di riconoscimento, di successo
- i bisogni di realizzazione di sé, della propria identità.
Questa, in ordine decrescente per impellenza, è la cosiddetta piramide dei bisogni elaborata negli anni ’50 e successivamente integrata da Abraham Maslow, psicologo statunitense, che li ha classificati in ordine progressivo, nel senso che il soddisfacimento di ogni livello ci porta a focalizzare l’attenzione sul livello successivo. Riuscire a individuare quali bisogni insoddisfatti sottendono alla lite significa riportare il conflitto nell’ambito della risolvibilità. Di solito, infatti, si litiga sul “modo” di soddisfare i bisogni, non sui bisogni stessi. Mentre il bisogno è insopprimibile, la strategia per soddisfarlo può essere modificata in modo che sia ugualmente soddisfacente per tutti. Ragionare sulle strategie una volta individuati i bisogni permette di passare dalla competizione alla cooperazione. Per arrivare a intercettare i bisogni è necessario tenere conto degli aspetti legati alla emotività delle parti e attivare l’empatia, cioè la capacità di immedesimarsi in modo benevolo nelle idee e nei sentimenti di ciascuna delle parti. “Quando le persone sono addolorate, spesso hanno bisogno di empatia prima di poter ascoltare quello che gli viene detto. (…) Soprattutto se c’è una storia di dolore, è importante offrire abbastanza empatia in modo che le parti si sentano rassicurate che il loro dolore è riconosciuto e compreso”, scrive Rosenberg. E’ utile ricordare che essere empatici non comporta necessariamente l’approvazione delle tesi di qualcuno, ma solo la profonda comprensione. “Ognuno ha ragione per sé” scrive Jerome Liss, volendo dire che, dal proprio punto di vista, ognuno fa il meglio che può. Questa considerazione è importante per uscire dalle logiche tese a trovare il torto e la ragione, assumendo invece la validità soggettiva degli atteggiamenti e delle aspettative delle parti in causa. Per riuscire nel suo intento il mediatore dovrà tenere a mente che la richiesta di ascolto è connaturata a ogni essere umano: chiunque ha bisogno di essere riconosciuto dagli altri nella propria identità, nel proprio io e nelle proprie esigenze e difficoltà (in genere reali, a volte presunte…) e aspirazioni. L’arte di ascoltare può essere imparata. La strada verso la padronanza di quest’arte passa attraverso l’ascolto attivo, cioè un modo di ascoltare che non si limita a recepire, ma che “prende l’iniziativa” per stimolare e gratificare la controparte, e in tal modo testimoniarle riconoscimento. Per offrire questa testimonianza nel miglior modo possibile bisogna sforzarsi di non giudicare. Si accetta l’altro com’è, semplicemente lo si ascolta, e anzi gli si dimostra che si va oltre l’ascolto, che si punta a comprendere meglio le sue richieste e le sue aspettative. In conclusione, il mediatore fa la spola tra i punti di vista dei litiganti, individua quali bisogni tentano di soddisfare e restituisce loro la possibilità di trovare accordi soddisfacenti. Nel farlo li ascolta senza giudicare, accoglie, comprende, sostiene del decifrare e distinguere i bisogni dalle strategie e, infine, collabora nella ricerca della strategia più adatta a soddisfare i bisogni di tutti.
“Quanta più esperienza ho fatto nel mediare conflitti in giro per il mondo e quante più volte ho visto che cosa porta le famiglie a litigare e le nazioni a farsi la guerra, tanto più sono convinto che questi conflitti potrebbero essere risolti da bambini delle elementari. I conflitti potrebbero essere risolti facilmente se solo potessimo dire “Questi sono i bisogni delle due parti. Queste sono le risorse disponibili. Cosa possiamo fare per soddisfare questi bisogni?”. Invece concentriamo i nostri sforzi sul de-umanizzarci a vicenda con etichette e giudizi, finché anche il conflitto più semplice diventa difficile da risolvere. La Comunicazione Non Violenta ci aiuta ad evitare questa trappola, aumentando così la probabilità di raggiungere una soluzione soddisfacente”.
Riferimenti bibliografici
Abraham Maslow Motivazione e personalità Armando Editore
Liss L’ascolto profondo. Manuale per le relazioni d’aiuto 2015 Ed. La Meridiana
M. B. Rosenberg Le parole sono finestre (oppure muri) 1998 Ed. Esserci