di Francesca Caprino
Il diffondersi del Covid-19 e la conseguente chiusura delle scuole e delle strutture educative, la cessazione improvvisa di tutte le attività sportive e ricreative e la situazione di aumentata fragilità della fascia più anziana della popolazione hanno messo le famiglie in una situazione di crisi nella gestione dei vecchi e dei nuovi carichi familiari. La didattica a distanza, una modalità di fare scuola a cui solo una ristretta minoranza di insegnanti era avvezza, ha costretto le famiglie a far virare il contesto domestico in quello di un ibrido home-schooling, trasformando i genitori in insegnanti improvvisati, alle prese con piattaforme informatiche, materiali didattici da reperire, scaricare, stampare, far studiare e restituire agli insegnanti. La pandemia ha reso complesse anche le azioni più ordinarie come fare la spesa e ha, inoltre, richiesto un impegno maggiore nei lavori di pulizia e di igienizzazione degli ambienti e degli indumenti. Molte famiglie hanno poi risentito pesantemente del blocco delle attività produttive e lavorative, in particolare la categoria dei lavoratori autonomi, quella dei lavoratori precari e ancor più quella di chi opera in contesti economici informali. Particolarmente critica la situazione delle famiglie dove sono presenti adulti o minori con disabilità (i primi non hanno potuto usufruire dei servizi riabilitativi, educativi e assistenziali, i secondi, in aggiunta, sono stati in molti casi esclusi dalla didattica a distanza; si veda l’intervista a Dario Ianes sulla rivista “Vita” in merito ai risultati preliminari di una ricerca condotta dall’Università di Bolzano, l’Università LUMSA, l’Università di Trento e Fondazione Agnelli su didattica a distanza e inclusione degli alunni disabili) oltre a quella delle famiglie monoparentali. Ai bisogni materiali si sono aggiunti quelli psicologici: sostenere sul piano emotivo bambini e ragazzi isolati dagli abituali contesti di socializzazione, aiutare altri familiari con difficoltà preesistenti o indotte dalla quarantena.
A queste incombenze deve infine essere sommata quella – eventuale – della cura di familiari colpiti dal virus.
Non stupirà il fatto che queste mansioni abbiano gravato e stiano ancora gravando per lo più sulle donne, sulle più fortunate, ovvero quante hanno potuto usufruire del lavoro agile, sulle addette ai servizi essenziali che non hanno potuto lasciare il posto di lavoro (ricordiamo come la maggioranza di chi presta i servizi considerati essenziali è costituita per due terzi da donne, pensiamo ad esempio al personale sanitario, dove la componente femminile, secondo i dati del Ministero della Salute del 2017 raggiunge il 66,8% nel solo Sistema Sanitario Nazionale) e che per questo motivo sono anche state esposte a un maggior rischio di contagio, così come sulle molte donne che lavorano nell’economia informale (colf, badanti ecc.) prive di qualunque forma di copertura sociale. La pandemia ha esasperato disparità preesistenti: in Italia le donne dedicano al lavoro non pagato circa cinque ore al giorno, mentre gli uomini non raggiungono le due ore (si vedano a questo proposito i dati dell’OECD selezionando nei filtri di ricerca il genere maschile e quello femminile); è inoltre ancora estremamente diffusa, nel nostro paese, una cultura secondo la quale debbano essere principalmente le donne a doversi far carico dei figli (Naldini & Saraceno, 2011).
Si tratta di un fenomeno che non riguarda solamente l’Italia, ma che ha una portata mondiale.
Il segretario dell’ONU Guterres ha sottolineato come la crisi dei mercati e la chiusura delle imprese abbia penalizzato maggiormente le donne, facendo scomparire milioni di posti di lavoro femminili, allo stesso tempo “il lavoro di assistenza non retribuita delle donne è aumentato in modo esponenziale a causa della chiusura delle scuole e delle crescenti esigenze delle persone anziane. Queste correnti si stanno combinando come mai prima per sconfiggere i diritti delle donne e negarne le opportunità“. Guterres ha esortato i governi nazionali a mettere le donne al centro delle azioni politiche ed economiche di contrasto alla crisi provocata dalla pandemia, coinvolgendole nei processi decisionali e riconoscendo il valore economico del lavoro non retribuito.
Alcune delle prime evidenze sulla portata delle disuguaglianze di genere nel periodo della pandemia arrivano da uno studio, condotto da un gruppo di ricercatori delle università di Oxford, Cambridge e Zurigo che tra marzo e aprile 2020 hanno raccolto dati su 15.000 persone residenti nel Regno Unito, in Germania e negli USA. La ricerca ha evidenziato come la percentuale di donne che ha perso il lavoro a causa della pandemia sia superiore a quello degli uomini in tutti i paesi presi in considerazione, soprattutto negli Stati Uniti dove le neo-disoccupate sono il 21% contro il 14% degli uomini. Questo fenomeno è stato indagato alla luce di diverse variabili come il grado di istruzione, il tipo di occupazione e l’area di residenza. Il divario educativo si è dimostrato un fattore in grado di aumentare la probabilità di perdere il lavoro; molto spesso le mansioni che svolgono le persone con un minore grado di istruzione non si prestano a essere svolte in modalità agile. Il divario di genere, nella perdita di posti di lavoro, sembra invece avere altre cause che i promotori di questa ricerca individuano nelle ore trascorse dalle donne a casa in attività di cura e di accompagnamento alle attività scolastiche dei figli (Adams-Prassl et al., 2020). Le istituzioni statali stanno cercando di mettere in atto delle misure in grado di contrastare i fenomeni evidenziati con misure di protezione sociale.
Va in questa direzione il pacchetto di incentivi “Cura Italia” che ha disposto l’erogazione di un bonus baby- sitter di seicento euro ad alcune tipologie di lavoratori con figli minori di 12 anni e un congedo di quindici giorni retribuito al 50%; anche in Austria è stato offerta ai lavoratori con figli la possibilità di usufruire di un congedo parentale di tre settimane retribuito al 100%. Molti altri paesi stanno intraprendendo misure analoghe, misure che tuttavia sembrano al momento insufficienti a rispondere ai bisogni delle famiglie. Occorrerà ancora del tempo per avere un quadro più definito su quanto la pandemia abbia inciso sulle disuguaglianze di genere in termini di distribuzione del lavoro domestico e di cura e sui tassi occupazionali, ma quanto emerso fino a questo momento desta una legittima preoccupazione sugli scenari dei mesi a venire e impone ai governi di ripensare ai processi di ricostruzione con una visione sensibile alle questioni di genere.
Riferimenti bibliografici
Adams Prassl, A, Boneva, T. Golin, M., Rauh, C. (2020). Inequality in the Impact of the Coronavirus Shock: Evidence from Real Time Surveys. Cambridge-INET Working Paper Series No: 2020/18.
EIGE – European Institute for Gender Equality (2020) – Covid-19 and gender equality (2020)
Naldini, M., & Saraceno, C. (2011). Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni (pp. 7-229). Il Mulino, Bologna.
Nazioni Unite (2020). Policy Brief: The Impact of COVID-19 on Women.
UNICEF (2020). Caring in the time of COVID-19: Gender, unpaid care work and social protection.